domenica 19 febbraio 2012

Il gioco di Monti



Assunto che, come chiarì Norberto Bobbio, uno Stato non possiede immutabili fini propri, da tempo siamo di fronte ad un mutamento delle forme di stato europee. Divenute una sorta di “Stati competitivi di solvibilità”, le timocrazie occidentali hanno maturato questo assetto nel trentennale brodo di coltura neoliberista, alla cui manifestazione la crisi dei debiti sovrani ha impresso un’accelerazione decisiva. Uno “Stato competitivo di solvibilità” si prefigge, in sostanza, due obiettivi: concorrere nell’economia globalizzata ed essere in grado di soddisfare le obbligazioni assunte; ovvero, ottenere la “fiducia” dei mercati (in luogo dei cittadini). 

Data l’intempestività del sistema democratico in ordine al raggiungimento di tali scopi, negli Stati a rischio di insolvenza (Italia,Grecia) questo è stato surrogato con governi sedicenti “tecnici”, delle specie di protesi “ad interim”, i cui capi e membri sono stati perlopiù scelti tra la nomenklatura dei “think tanks” neoliberisti e delle grandi finanziarie, col compito di rimborsare i prestatori(spesso le stesse finanziarie di cui facevano parte fino a poco prima). Parimenti, è evidente che tale cambio di guardia sia sopraggiunto anche in ragione della stretta interdipendenza tra le economie europee e mondiali, attraverso le pressioni di “Merkozy” e della Troika(Commissione europea,Bce,Fmi). Pertanto, per cogliere la “ratio” delle manovre di Monti, Papadimos o Mariano Rajoy, occorre sussumerle nel contesto delle politiche economiche sovranazionali. 

Il 30 Gennaio, a Bruxelles, 25 Capi di Stato e di Governo hanno firmato il “Trattato di stabilità, coordinamento e governance” dell’ Uem: è lo specchio del programma di Monti. Oltre ad imporre l’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione, impedendo il ricorso a politiche anticicliche, il Trattato dispone che il deficit annuale di ogni paese firmatario non debba superare lo 0,5 % del Pil; inoltre, ordina l’abbattimento del debito, per la quota eccedente il 60 % del Pil, di un ventesimo all’ anno: per l’Italia vuol dire un taglio annuo di 47 miliardi, per vent’anni. In soldoni, viene elusa la causa originaria della speculazione sui debiti europei, cioè la rovinosa configurazione dell’Ue, figlia dell’ ordoliberismo tedesco - con una Banca centrale che,unica al mondo, non batte moneta comprando titoli di stato-, indebolendone le già fragili fondamenta. Ma il dato più allarmante è che, dall’inizio del 2012, i governi europei hanno deciso di coordinarsi per condurre una politica comune di moderazione salariale(prodromo di uno “Stato federale competitivo di solvibilità”?). Un’ entrata a gamba tesa, il cui obiettivo dichiarato è frantumare la contrattazione collettiva. I paesi europei dovranno conformarsi all’ archetipo tedesco della deflazione competitiva(crescita della competitività tramite riduzione dei salari). 

Con Schroder (1998-2005) - che inaugurò questo infelice modello, dove il salario è variabile dipendente del profitto - , è stato detto, la Germania ha incominciato a crescere a le sue esportazioni ad aumentare. Ma a quale prezzo? Nel 2011, il 40% dei lavoratori tedeschi era assunto con contratti precari e 6,5 milioni di lavoratori erano impiegati a meno di dieci euro l’ora. Fra tutti i paesi Ocse, la Germania è quello che, tra il 2000 e il 2009, ha visto crescere più lentamente i salari. Ed è proprio questo il taglio che Monti vuole imprimere al mondo del lavoro in Italia. Proni ai diktat europei, ma pieni di protervia cattedratica verso giovani precari e lavoratori, Monti ed i suoi ministri attaccano la contrattazione collettiva, in linea col precedente governo. La contrattazione collettiva è uno strumento fondamentale per una più equa distribuzione tra la quota salari (la parte di Pil che va al lavoro) e i redditi da capitale. Le statistiche Ocse informano che, in vent’anni, la quota salari in Italia ha perso oltre 10 punti sul Pil (un punto di Pil è circa 16 miliardi l’anno),che sono andati ai redditi da capitale. Ma la controriforma del lavoro ha carattere transnazionale,rientrando nelle più vasta offensiva contro i lavoratori, i servizi pubblici ed i beni comuni,applicata da tutti i governi europei. Sul lavoro, la parola chiave è la famosa “flessibilità”. In Italia, secondo le politica schizoide dei “due tempi”,dopo il “rigore”( la batosta sulle pensioni,l’aumento dell’IVA, l’introduzione dell’IMU,fatte per rimborsare le banche sulla pelle delle persone),verrà l’ora della crescita. E come si “cresce”,secondo Monti? Domanda retorica : liberalizzazioni, privatizzazioni e flessibilità. Accantonando il solito mantra delle liberalizzazioni (leggi: creazione di nuovi monopoli) e privatizzazioni (leggi: svendita di partecipate o di patrimonio pubblico), già ampiamente sperimentate e i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti, è surreale sentir parlare ancora di “flessibilità” come fattore di crescita della produttività. 

In Italia il 31 % dei giovani sotto i 24 anni è disoccupato,e circa la metà di quelli che lavorano sono precari. Le cause della precarietà risiedono nella proliferazione di forme contrattuali( 46,secondo la Cgil), “legalizzate” attraverso il Pacchetto Treu del 1997 e la “legge 30” del 2003. La logica di queste leggi era la stessa di oggi : favorire l’occupazione giovanile,garantendo la flessibilità in uscita alle imprese. Ciò nonostante ,Monti dichiara di voler aumentare la produttività mediante la flessibilità, puntando dritto all’ art. 18. A riguardo, non esiste verifica empirica che l’art. 18 impedisca alle aziende di licenziare,né ci sono prove che la sua abolizione serva ad aumentare l’occupazione: solo tanta retorica ideologica padronale. La maggiore produttività ( essendo un aumento del valore aggiunto per ora lavorata), può verificarsi solo tramite investimenti nella ricerca e soprattutto nella formazione del lavoratore, cosa che la flessibilità impedisce alla radice. Giustamente, Albert Einstein affermò: <<Non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che lo ha generato>>. Il finanzcapitalismo e la deregolamentazione neoliberista hanno prodotto la più grande crisi,economica e di civiltà, della storia. La distruzione della Grecia,senza una brusca inversione di rotta, non è altro che la prolessi di ciò che toccherà all’ Italia,all’ euro e all’Europa.

Valentino Rizzo

1 commento:

  1. Ottima analisi scaturita dall'ottima penna del Rizzo. Sarebbe bello far capire tutto questo a coloro che sostengono le politiche lacrime e sangue di Monte e che pensano che siano solo un sacrificio iniziale per recuperare lo status quo ante, purtroppo andrà sempre peggio...la Grecia si avvicina, così come la rivoluzione, chissà.

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