Il reddito di
cittadinanza ( o
reddito minimo di esistenza/ reddito minimo garantito), nella sua declinazione
“universalistica”, può essere definito come quell’ erogazione monetaria -
accompagnata dal godimento gratuito di determinati diritti e servizi -,
spettante, a titolo di diritto soggettivo, ad ogni cittadino (ovvero a ogni
residente stabile) di un paese, indipendentemente
dalla forma e dal livello del suo reddito, dalla propria condizione di
occupazione- disoccupazione- inoccupazione e dal patrimonio: esso è inoltre
incondizionato; illimitato; cumulabile con redditi da lavoro; corrisposto alle
persone fisiche ( e non alla famiglia ) dal raggiungimento della maggiore età,
in un ammontare sufficiente a garantire il soddisfacimento dei bisogni
essenziali e dei diritti fondamentali della persona.
Nelle diverse
elaborazioni e pratiche reali, tuttavia, il reddito di cittadinanza ha assunto
spesso le sembianze di una mera integrazione del reddito, o comunque ha finito
per gravitare nell’orbita dei sistemi di protezione ed assistenza sociale - più
o meno avanzati -, che ne hanno depotenziato l’ originaria portata
universalistica. Ciò premesso, emerge peraltro un dato allarmante: in Europa, gli unici
paesi non ancora dotati di una qualsiasi forma di reddito minimo sono l’
Italia, la Grecia e l’Ungheria. Ad
esempio, in Germania, coloro che non hanno un lavoro o hanno un reddito
basso, con un’ età compresa tra i 16 e i 65 anni, ricevono dallo Stato 345,00 euro al mese (per un periodo di tempo illimitato), e hanno coperti i costi dell’ affitto e del riscaldamento; con leggere differenze, dicasi lo stesso per la Gran Bretagna. In
Francia, per avere diritto al Revenu
minimum d’insertion (Rmi), bisogna aver compiuto 25 anni (tranne che per i
disoccupati con figli): il Rmi prevede l’integrazione del reddito a 425, 40 euro mensili per un disoccupato solo e a
638,10 euro se in coppia; se la coppia ha un figlio, l’integrazione sale a
765,72 euro, che diventano 893,34 se ne ha due, i quali comunque aumentano di
170,16 euro per ogni altro figlio.
Per non citare, poi, le solite Danimarca e Svezia.
Evidentemente, è anche
per la totale assenza di simili protezioni, le quali sono la norma in Europa(e
non parliamo di paesi socialisti, ma di un’ area dove persino il
liberal-keynesismo è stato bandito!), che le fasce deboli della popolazione
italiana e greca accusano con una virulenza maggiore rispetto a quelle degli
altri stati europei i colpi della crisi capitalistica che avanza. A titolo di
cronaca, bisogna ricordare che, limitatamente all’ ambito delle autonomie
territoriali, le
regioni Campania e, da ultimo, Molise hanno istituito delle forme di reddito di
cittadinanza. La prima approvò nel
febbraio 2004, sotto la giunta Bassolino, una legge che prevedeva, per un
triennio, un contributo mensile
di 350,00 euro per i nuclei
familiari aventi un reddito annuo inferiore ai 5 mila euro; nel 2006, terminata
la fase sperimentale, si è andati avanti attraverso proroghe annuali previste nella Finanziaria regionale. La seconda ha introdotto, nella Finanziaria regionale
2012, un’ iniziativa sperimentale di sostegno alle famiglie molisane in
difficoltà economica, prevedendo l’erogazione di un contributo economico
mensile a famiglia per un periodo di tempo non superiore ai 12 mesi.
Nonostante ciò, ambedue i provvedimenti peccano di limiti strutturali, come la corresponsione del contributo ai nuclei familiari e non alle
persone fisiche, e di limiti
naturali, essendo iniziative
regionali, le quali quindi si rivolgono ad aree molto circoscritte e che, non
avendo le regioni la necessaria capacità finanziaria per sostenerle
autonomamente, sono appese al
filo sottile del cofinanziamento statale, che immancabilmente viene meno e le fa sfumare nel nulla. Perciò, è
essenziale che ad agire in tal senso sia lo Stato, anche perché si stratta di
interventi che hanno dei costi inverosimilmente bassi: i dati che seguono ne
sono la prova.
Seguendo un’ interessante
articolo di Andrea
Fumagalli - economista che da
anni è occupato sulle tematiche del reddito di cittadinanza, o reddito di base
incondizionato(RBI) - , emerge che, considerando come soglia di povertà
relativa 600 euro al mese, per 7.200 euro all’anno, allora, sulla base dei dati
Caritas, per garantire a tutta la
popolazione italiana attiva (dai
16 ai 65 anni d’età) un RBI pari alla soglia di povertà relativa(sotto forma di
sussidio o di integrazione del reddito), occorrerebbe una cifra lorda pari a 20,7 miliardi di euro all’anno. Invece, per introdurre un RBI superiore del 20 % alla soglia di povertà
relativa, ossia pari a 720 euro al mese,
per 8.640 euro all’anno, sarebbero
necessari 34,7 miliardi di euro;
ancora, per garantire un RBI di
883 euro mensili, ovvero 10.000
euro annuali( misura che interesserebbe 12 milioni e mezzo di italiani, cioè il 31% della popolazione attiva), si giungerebbe ad un costo complessivo pari a poco più di 45 miliardi di
euro. Ora, giacché il RBI andrebbe a sostituire gli attuali ammortizzatori
sociali (indennità di
disoccupazione, mobilità, i vari tipi di cassa integrazione, che a ragione
Fumagalli definisce “ iniqui, parziali e distorsivi” ), incorporandoli e
universalizzandoli - a scanso di equivoci, va aggiunto che a finanziare il RBI
non sarebbe la previdenza, ovvero i contributi sociali, ma l’assistenza, cioè
la fiscalità generale - , e atteso che il costo degli ammortizzatori sociali
ammonterebbe a circa 15,5miliardi di euro, i quali andrebbero sottratti alla
cifra necessaria all’introduzione del RBI, il costo netto dello stesso
ammonterebbe a: 1) 5,2 miliardi di euro, per un RBI pari 7.200 euro annui; 2)
15,7 miliardi di euro, per un RBI pari a 8.640 euro annui; 3) 26 miliardi di
euro, per un RBI pari a 10.000 euro annui. Si potrebbe opportunamente obiettare
che questo tipo di RBI non sia effettivamente universale ed incondizionato, dal
momento che, per beneficiarne, si pone come condizione il livello di reddito.
Tuttavia, come ricorda lo stesso Fumagalli, “ una volta entrati nella
graduatoria, non vengono poste altre condizioni e al momento una simile misura
non esiste in Europa, anche laddove vengono dati generosi sussidi al reddito in
modo sganciato dal lavoro”, e che ,inoltre, “occorre considerare che sta nella
definizione della soglia di reddito da raggiungere il sistema per ampliare
progressivamente i possibili beneficiari sino ad aumentare il grado di
universalità di accesso”, poiché, proprio grazie all’RBI, la soglia di povertà
tenderà ad aumentare automaticamente, aumentando il reddito medio della
popolazione.
Tutto ciò mette in risalto come l’introduzione di un reddito di
cittadinanza non sia un problema di sostenibilità economica, ma di mera volontà
politica. Infatti, per coprire i saldi succitati, sarebbero innumerevoli gli
interventi fiscali che potrebbero essere eseguiti e le voci di spesa da
tagliare: l’introduzione di una tassa patrimoniale dello 0,5% sui patrimoni
superiori ai 500.000 euro, che, secondo Sbilanciamoci, farebbe incassare circa
10,5 miliardi di euro (oltre ai vari miliardi che si recupererebbero con un
aumento della progressività delle imposte); la tassazione delle rendite
finanziarie, portata dal 12,5% al livello europeo del 23%, che, sempre secondo
la stessa fonte, porterebbe ad un incremento delle entrate di circa 2 miliardi
di euro; la drastica riduzione della spesa militare, a cominciare dalla
rinuncia alla commessa dei 90 cacciabombardieri F35, che costeranno in cinque
anni 10,8 miliardi; il blocco delle grandi opere, a partire dalla TAV, per
iniziare una buona volta a seguire la logica delle piccole opere, e della
riconversione ecologica dell’ economia; infine, un netto taglio agli stipendi
dei managers pubblici, alle pensioni d’oro, agli stipendi dei parlamentari, dei
consiglieri regionali e via discorrendo.
In conclusione, sembra superfluo
rilevare che il reddito di cittadinanza non sia uno strumento “rivoluzionario”
o la panacea di tutti i mali, ma piuttosto un mezzo schiettamente riformista,
che però ha dalla sua almeno due pregi notevoli: riesce ad unificare le lotte,
essendo potenziale parola d’ordine di precari, disoccupati, inoccupati,
studenti, lavoratori e migranti, giovani e meno giovani, finalmente uniti dopo
la poderosa strategia padronale di atomizzazione e divisione del lavoro, che ha
scatenato un’ infinita guerra tra poveri; blocca l’inarrestabile corsa al
ribasso dei salari e dei diritti dei lavoratori, i quali, avendo garantiti i
bisogni essenziali, aumenterebbero quel potere contrattuale che, in questi
tempi di lotta di classe all’incontrario, sembra destinato a svanire del tutto.
E’ per questo che la Federazione Provinciale di Salerno del Partito della
Rifondazione Comunista-FdS, ha lanciato un appello alle soggettività politiche
ed alle realtà sociali in ordine alla costruzione di una rete salernitana per
il reddito incondizionato di base, rete che si sta concretizzando in questi giorni.
Valentino Rizzo