domenica 20 maggio 2012

Reddito di cittadinanza: una questione di volontà politica


Il reddito di cittadinanza ( o reddito minimo di esistenza/ reddito minimo garantito), nella sua declinazione “universalistica”, può essere definito come quell’ erogazione monetaria - accompagnata dal godimento gratuito di determinati diritti e servizi -, spettante, a titolo di diritto soggettivo, ad ogni cittadino (ovvero a ogni residente stabile) di un paese, indipendentemente dalla forma e dal livello del suo reddito, dalla propria condizione di occupazione- disoccupazione- inoccupazione e dal patrimonio: esso è inoltre incondizionato; illimitato; cumulabile con redditi da lavoro; corrisposto alle persone fisiche ( e non alla famiglia ) dal raggiungimento della maggiore età, in un ammontare sufficiente a garantire il soddisfacimento dei bisogni essenziali e dei diritti fondamentali della persona. 

Nelle diverse elaborazioni e pratiche reali, tuttavia, il reddito di cittadinanza ha assunto spesso le sembianze di una mera integrazione del reddito, o comunque ha finito per gravitare nell’orbita dei sistemi di protezione ed assistenza sociale - più o meno avanzati -, che ne hanno depotenziato l’ originaria portata universalistica. Ciò premesso, emerge peraltro un dato allarmante: in Europa, gli unici paesi non ancora dotati di una qualsiasi forma di reddito minimo sono l’ Italia, la Grecia e l’Ungheria. Ad esempio, in Germania, coloro che non hanno un lavoro o hanno un reddito basso, con un’ età compresa tra i 16 e i 65 anni, ricevono dallo Stato 345,00 euro al mese (per un periodo di tempo illimitato), e hanno coperti i costi dell’ affitto e del riscaldamento; con leggere differenze, dicasi lo stesso per la Gran Bretagna. In Francia, per avere diritto al Revenu minimum d’insertion (Rmi), bisogna aver compiuto 25 anni (tranne che per i disoccupati con figli): il Rmi prevede l’integrazione del reddito a 425, 40 euro mensili per un disoccupato solo e a 638,10 euro se in coppia; se la coppia ha un figlio, l’integrazione sale a 765,72 euro, che diventano 893,34 se ne ha due, i quali comunque aumentano di 170,16 euro per ogni altro figlio. Per non citare, poi, le solite Danimarca e Svezia. 

Evidentemente, è anche per la totale assenza di simili protezioni, le quali sono la norma in Europa(e non parliamo di paesi socialisti, ma di un’ area dove persino il liberal-keynesismo è stato bandito!), che le fasce deboli della popolazione italiana e greca accusano con una virulenza maggiore rispetto a quelle degli altri stati europei i colpi della crisi capitalistica che avanza. A titolo di cronaca, bisogna ricordare che, limitatamente all’ ambito delle autonomie territoriali, le regioni Campania e, da ultimo, Molise hanno istituito delle forme di reddito di cittadinanza. La prima approvò nel febbraio 2004, sotto la giunta Bassolino, una legge che prevedeva, per un triennio, un contributo mensile di 350,00 euro per i nuclei familiari aventi un reddito annuo inferiore ai 5 mila euro; nel 2006, terminata la fase sperimentale, si è andati avanti attraverso proroghe annuali previste nella Finanziaria regionale. La seconda ha introdotto, nella Finanziaria regionale 2012, un’ iniziativa sperimentale di sostegno alle famiglie molisane in difficoltà economica, prevedendo l’erogazione di un contributo economico mensile a famiglia per un periodo di tempo non superiore ai 12 mesi. Nonostante ciò, ambedue i provvedimenti peccano di limiti strutturali, come la corresponsione del contributo ai nuclei familiari e non alle persone fisiche, e di limiti naturali, essendo iniziative regionali, le quali quindi si rivolgono ad aree molto circoscritte e che, non avendo le regioni la necessaria capacità finanziaria per sostenerle autonomamente, sono appese al filo sottile del cofinanziamento statale, che immancabilmente viene meno e le fa sfumare nel nulla. Perciò, è essenziale che ad agire in tal senso sia lo Stato, anche perché si stratta di interventi che hanno dei costi inverosimilmente bassi: i dati che seguono ne sono la prova. 

Seguendo un’ interessante articolo di Andrea Fumagalli - economista che da anni è occupato sulle tematiche del reddito di cittadinanza, o reddito di base incondizionato(RBI) - , emerge che, considerando come soglia di povertà relativa 600 euro al mese, per 7.200 euro all’anno, allora, sulla base dei dati Caritas, per garantire a tutta la popolazione italiana attiva (dai 16 ai 65 anni d’età) un RBI pari alla soglia di povertà relativa(sotto forma di sussidio o di integrazione del reddito), occorrerebbe una cifra lorda pari a 20,7 miliardi di euro all’anno. Invece, per introdurre un RBI superiore del 20 % alla soglia di povertà relativa, ossia pari a 720 euro al mese, per 8.640 euro all’anno, sarebbero necessari 34,7 miliardi di euro; ancora, per garantire un RBI di 883 euro mensili, ovvero 10.000 euro annuali( misura che interesserebbe 12 milioni e mezzo di italiani, cioè il 31% della popolazione attiva), si giungerebbe ad un costo complessivo pari a poco più di 45 miliardi di euro. Ora, giacché il RBI andrebbe a sostituire gli attuali ammortizzatori sociali (indennità di disoccupazione, mobilità, i vari tipi di cassa integrazione, che a ragione Fumagalli definisce “ iniqui, parziali e distorsivi” ), incorporandoli e universalizzandoli - a scanso di equivoci, va aggiunto che a finanziare il RBI non sarebbe la previdenza, ovvero i contributi sociali, ma l’assistenza, cioè la fiscalità generale - , e atteso che il costo degli ammortizzatori sociali ammonterebbe a circa 15,5miliardi di euro, i quali andrebbero sottratti alla cifra necessaria all’introduzione del RBI, il costo netto dello stesso ammonterebbe a: 1) 5,2 miliardi di euro, per un RBI pari 7.200 euro annui; 2) 15,7 miliardi di euro, per un RBI pari a 8.640 euro annui; 3) 26 miliardi di euro, per un RBI pari a 10.000 euro annui. Si potrebbe opportunamente obiettare che questo tipo di RBI non sia effettivamente universale ed incondizionato, dal momento che, per beneficiarne, si pone come condizione il livello di reddito. Tuttavia, come ricorda lo stesso Fumagalli, “ una volta entrati nella graduatoria, non vengono poste altre condizioni e al momento una simile misura non esiste in Europa, anche laddove vengono dati generosi sussidi al reddito in modo sganciato dal lavoro”, e che ,inoltre, “occorre considerare che sta nella definizione della soglia di reddito da raggiungere il sistema per ampliare progressivamente i possibili beneficiari sino ad aumentare il grado di universalità di accesso”, poiché, proprio grazie all’RBI, la soglia di povertà tenderà ad aumentare automaticamente, aumentando il reddito medio della popolazione

Tutto ciò mette in risalto come l’introduzione di un reddito di cittadinanza non sia un problema di sostenibilità economica, ma di mera volontà politica. Infatti, per coprire i saldi succitati, sarebbero innumerevoli gli interventi fiscali che potrebbero essere eseguiti e le voci di spesa da tagliare: l’introduzione di una tassa patrimoniale dello 0,5% sui patrimoni superiori ai 500.000 euro, che, secondo Sbilanciamoci, farebbe incassare circa 10,5 miliardi di euro (oltre ai vari miliardi che si recupererebbero con un aumento della progressività delle imposte); la tassazione delle rendite finanziarie, portata dal 12,5% al livello europeo del 23%, che, sempre secondo la stessa fonte, porterebbe ad un incremento delle entrate di circa 2 miliardi di euro; la drastica riduzione della spesa militare, a cominciare dalla rinuncia alla commessa dei 90 cacciabombardieri F35, che costeranno in cinque anni 10,8 miliardi; il blocco delle grandi opere, a partire dalla TAV, per iniziare una buona volta a seguire la logica delle piccole opere, e della riconversione ecologica dell’ economia; infine, un netto taglio agli stipendi dei managers pubblici, alle pensioni d’oro, agli stipendi dei parlamentari, dei consiglieri regionali e via discorrendo

In conclusione, sembra superfluo rilevare che il reddito di cittadinanza non sia uno strumento “rivoluzionario” o la panacea di tutti i mali, ma piuttosto un mezzo schiettamente riformista, che però ha dalla sua almeno due pregi notevoli: riesce ad unificare le lotte, essendo potenziale parola d’ordine di precari, disoccupati, inoccupati, studenti, lavoratori e migranti, giovani e meno giovani, finalmente uniti dopo la poderosa strategia padronale di atomizzazione e divisione del lavoro, che ha scatenato un’ infinita guerra tra poveri; blocca l’inarrestabile corsa al ribasso dei salari e dei diritti dei lavoratori, i quali, avendo garantiti i bisogni essenziali, aumenterebbero quel potere contrattuale che, in questi tempi di lotta di classe all’incontrario, sembra destinato a svanire del tutto. E’ per questo che la Federazione Provinciale di Salerno del Partito della Rifondazione Comunista-FdS, ha lanciato un appello alle soggettività politiche ed alle realtà sociali in ordine alla costruzione di una rete salernitana per il reddito incondizionato di base, rete che si sta concretizzando in questi giorni.

Valentino Rizzo

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