E’ una costante in periodi di crisi: intervenire
massicciamente sulle opere pubbliche per far ripartire l'economia. Lo sosteneva
l’economista Keynes, le cui teorie trovarono applicazione nelle politiche di
Franklin Delano Roosvelt padre de la Work Progress Administration, agenzia
governativa che gestiva la realizzazione di importanti opere pubbliche
all’epoca del New Deal. Una teoria, quella di keynes, dallo spirito pragmatico
e dalla matrice spiccatamente capitalista ma che contempla la pianificazione di
opere necessarie, ancor prima che di opere inserite unicamente nell’ottica del
rilancio economico.
E’ ciò a cui abbiamo assistito in Italia negli ultimi
tormentati anni di burrasca anti-democratica. La Tav, il ponte sullo stretto,
il Mose, e numerose altre opere definite “vitali” per il paese, si apprestavano
a diventare l’emblema del risollevamento dalla crisi finanziaria. Negli U.S.A,
il New Deal ha determinato l’ampliamento delle vie di comunicazione, la
costruzione di nodi infrastrutturali di rilievo ed efficaci, e non ha permesso
di trascurare le grane relative all’edilizia scolastica, al controllo delle vie
fluviali (la popolazione genovese ne sa qualcosa), in generale al miglioramento
delle strutture essenziali di un paese.
Certo, se negli USA è stato possibile
l’Italia, invece, è genuflessa alle sue lacune storiche. Ma neanche il concetto
di quella politica è paragonabile a quanto accade in Italia, dove i grandi
cantieri sono ad appannaggio delle cosce mafiose, delle lobby, dei nuclei
affaristi che dilaniano la legalità e che speculano ai danni delle risorse
paesaggistiche. Qui non sarebbe possibile attuare neanche la teoria Keynesiana.
Nel belpaese il paradosso è sempre a portata di mano e la TAV, emblema del
disfacimento della ragione, imprime forza al ragionamento.
A cos’altro si può
addebitare la costruzione di una linea ferroviara ad alta velocità
assolutamente superflua (oltre che dannosa), se non ad una gentile concessione
alle mafie in tempo di crisi? Le FS sono uno dei più grandi centri di
distribuzione di appalti a livello nazionale. Non deve stupire, quindi, se la
Corte dei Conti ha già più volte criticato le modalità della suddivisone dei
lavori, i loro eccessivi costi ed il debito generazionale che questi debiti
creano nei confronti dei nostri figli che si troveranno a pagare senza poter
utilizzare i servizi a causa del deperimento strutturale che interverrà prima
che il debito possa essere estinto dai futuri contribuenti.
E perché, mentre il
95% dei pendolari ferroviari utilizzano i treni su percorsi brevi, non vengono
stanziati fondi per questo tipo di trasporto, mentre i finanziamenti vengono
invece concentrati verso l’alta velocità che ha pochissimi passeggeri, costi
enormi di manutenzione e che subisce la forte concorrenza dell’aereo?
La
Valsusa, in ultima analisi, è la miniera uranifera d’Europa. Non lo sostengono
i No Tav, ma l’Agip, che durante gli anni ’70 ha scavato una serie di tunnel
esplorativi sui monti fra Giaglione e Venaus per cercare il pechblenda, uno dei
principali minerali di uranio usati per produrre combustibile nucleare. Il
problema è che questi scavi, dismessi perché commercialmente poco convenienti,
si trovano a poche centinaia di metri dalla Maddalena di Chiomonte, il luogo
scelto da Ltf per costruire il cunicolo geognostico per le gallerie Tav fra
Torino e Lione. “Il progetto non genera danni ambientali di nessun tipo”, si
affanna a ripetere il governo. Ma in quel luogo la radioattività è di due volte
superiore la media.
Ma allora perché in Italia si costruiscono opere con la
militarizzazione dei territori, invece di assumersi la responsabilità di
individuare le grandi opere necessarie allo sviluppo del paese e poi
determinare con le regioni, i comuni e le comunità locali i modi per attuarle?
Ecco perché esistono i No Tav, ed ecco perché si tratta di un movimento
variegato che adotta svariate forme di protesta, che spaziano dalla canonica (e
ininfluente) manifestazione di piazza alla lotta più rude che comporta la
consapevole violazione di una o più norme di legge. Ci troviamo di fronte al caso
più eclatante e prolungato di disobbedienza civile dei tempi moderni, che mira
non soltanto al sabotaggio e a creare disagi al trasporto pubblico, ma al
palesamento delle falle infrastrutturali. Azioni simboliche, che non arrecano
disagio ma che attestano come la protesta e i movimenti in Italia si siano
evoluti: meno terrore, più spirito costruttivo.
In quest’ottica, si colloca
l’incendio appiccato qualche mese fa in prossimità di una centralina elettrica
che serve da meccanismo di sicurezza per la circolazione ferroviaria nel nodo
di Milano, tra le stazioni di Rogoredo e Lambrate. Il movimento No Tav ha
diffuso un comunicato per precisare che «queste azioni non rientrano nella
nostra metodologia di lotta, che sono metodologie di lotta popolare fatte alla
luce del sole. Qualunque provocatore può scrivere No Tav dove gli passa per la
testa, ma questo non coinvolge il movimento».
Ma la rivendicazione resta ed il
disagio di massa dei nostri giorni è il volano principale della furia del
singolo, spesso disorientato in mezzo alla “Catechesi” di partiti e lotte
politiche. Keynes o non Keynes, il problema rimane l’Italia e la sua puzza di
compromesso.
Al Binario 21 della Stazione Centrale di Milano la protesta più
lunga "ad alta quota", quella dei lavoratori della ex Wagon Lits,
dall'8 dicembre sulla Torre faro contro il licenziamento di 800 dipendenti a
seguito della soppressione dei treni notturni. La loro voce riecheggia nella
recessione dell’Italia. Fu lo storico radicale americano Howard Zinn, uno dei
massimi analisti (oltre che fautore) della disobbedienza civile contemporanea,
ad affermare che "E' giusto disobbedire a leggi ingiuste, ed è giusto
disobbedire alle sentenze che puniscono la violazione di quelle leggi".
Stefano Ferrara
Stefano Ferrara
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