sabato 5 maggio 2012

I no Tav e la disobbedienza civile


E’ una costante in periodi di crisi: intervenire massicciamente sulle opere pubbliche per far ripartire l'economia. Lo sosteneva l’economista Keynes, le cui teorie trovarono applicazione nelle politiche di Franklin Delano Roosvelt padre de la Work Progress Administration, agenzia governativa che gestiva la realizzazione di importanti opere pubbliche all’epoca del New Deal. Una teoria, quella di keynes, dallo spirito pragmatico e dalla matrice spiccatamente capitalista ma che contempla la pianificazione di opere necessarie, ancor prima che di opere inserite unicamente nell’ottica del rilancio economico. 

E’ ciò a cui abbiamo assistito in Italia negli ultimi tormentati anni di burrasca anti-democratica. La Tav, il ponte sullo stretto, il Mose, e numerose altre opere definite “vitali” per il paese, si apprestavano a diventare l’emblema del risollevamento dalla crisi finanziaria. Negli U.S.A, il New Deal ha determinato l’ampliamento delle vie di comunicazione, la costruzione di nodi infrastrutturali di rilievo ed efficaci, e non ha permesso di trascurare le grane relative all’edilizia scolastica, al controllo delle vie fluviali (la popolazione genovese ne sa qualcosa), in generale al miglioramento delle strutture essenziali di un paese. 

Certo, se negli USA è stato possibile l’Italia, invece, è genuflessa alle sue lacune storiche. Ma neanche il concetto di quella politica è paragonabile a quanto accade in Italia, dove i grandi cantieri sono ad appannaggio delle cosce mafiose, delle lobby, dei nuclei affaristi che dilaniano la legalità e che speculano ai danni delle risorse paesaggistiche. Qui non sarebbe possibile attuare neanche la teoria Keynesiana. Nel belpaese il paradosso è sempre a portata di mano e la TAV, emblema del disfacimento della ragione, imprime forza al ragionamento.

A cos’altro si può addebitare la costruzione di una linea ferroviara ad alta velocità assolutamente superflua (oltre che dannosa), se non ad una gentile concessione alle mafie in tempo di crisi? Le FS sono uno dei più grandi centri di distribuzione di appalti a livello nazionale. Non deve stupire, quindi, se la Corte dei Conti ha già più volte criticato le modalità della suddivisone dei lavori, i loro eccessivi costi ed il debito generazionale che questi debiti creano nei confronti dei nostri figli che si troveranno a pagare senza poter utilizzare i servizi a causa del deperimento strutturale che interverrà prima che il debito possa essere estinto dai futuri contribuenti.

E perché, mentre il 95% dei pendolari ferroviari utilizzano i treni su percorsi brevi, non vengono stanziati fondi per questo tipo di trasporto, mentre i finanziamenti vengono invece concentrati verso l’alta velocità che ha pochissimi passeggeri, costi enormi di manutenzione e che subisce la forte concorrenza dell’aereo?

La Valsusa, in ultima analisi, è la miniera uranifera d’Europa. Non lo sostengono i No Tav, ma l’Agip, che durante gli anni ’70 ha scavato una serie di tunnel esplorativi sui monti fra Giaglione e Venaus per cercare il pechblenda, uno dei principali minerali di uranio usati per produrre combustibile nucleare. Il problema è che questi scavi, dismessi perché commercialmente poco convenienti, si trovano a poche centinaia di metri dalla Maddalena di Chiomonte, il luogo scelto da Ltf per costruire il cunicolo geognostico per le gallerie Tav fra Torino e Lione. “Il progetto non genera danni ambientali di nessun tipo”, si affanna a ripetere il governo. Ma in quel luogo la radioattività è di due volte superiore la media. 

Ma allora perché in Italia si costruiscono opere con la militarizzazione dei territori, invece di assumersi la responsabilità di individuare le grandi opere necessarie allo sviluppo del paese e poi determinare con le regioni, i comuni e le comunità locali i modi per attuarle? 

Ecco perché esistono i No Tav, ed ecco perché si tratta di un movimento variegato che adotta svariate forme di protesta, che spaziano dalla canonica (e ininfluente) manifestazione di piazza alla lotta più rude che comporta la consapevole violazione di una o più norme di legge. Ci troviamo di fronte al caso più eclatante e prolungato di disobbedienza civile dei tempi moderni, che mira non soltanto al sabotaggio e a creare disagi al trasporto pubblico, ma al palesamento delle falle infrastrutturali. Azioni simboliche, che non arrecano disagio ma che attestano come la protesta e i movimenti in Italia si siano evoluti: meno terrore, più spirito costruttivo. 

In quest’ottica, si colloca l’incendio appiccato qualche mese fa in prossimità di una centralina elettrica che serve da meccanismo di sicurezza per la circolazione ferroviaria nel nodo di Milano, tra le stazioni di Rogoredo e Lambrate. Il movimento No Tav ha diffuso un comunicato per precisare che «queste azioni non rientrano nella nostra metodologia di lotta, che sono metodologie di lotta popolare fatte alla luce del sole. Qualunque provocatore può scrivere No Tav dove gli passa per la testa, ma questo non coinvolge il movimento». 

Ma la rivendicazione resta ed il disagio di massa dei nostri giorni è il volano principale della furia del singolo, spesso disorientato in mezzo alla “Catechesi” di partiti e lotte politiche. Keynes o non Keynes, il problema rimane l’Italia e la sua puzza di compromesso.

Al Binario 21 della Stazione Centrale di Milano la protesta più lunga "ad alta quota", quella dei lavoratori della ex Wagon Lits, dall'8 dicembre sulla Torre faro contro il licenziamento di 800 dipendenti a seguito della soppressione dei treni notturni. La loro voce riecheggia nella recessione dell’Italia. Fu lo storico radicale americano Howard Zinn, uno dei massimi analisti (oltre che fautore) della disobbedienza civile contemporanea, ad affermare che "E' giusto disobbedire a leggi ingiuste, ed è giusto disobbedire alle sentenze che puniscono la violazione di quelle leggi".

Stefano Ferrara

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